"Corona armonica" al Combattimento Spirituale
Tre musiche d’oggi ispirate all’opera di Lorenzo Scupoli Luisa Cosi, "Atti scupoliani" 2010, Lecce, Ed. Grifo, 2014
Scrive Flavio Colusso: «raccogliamo segni, disegni e architetture di un Autore, sperando coglierne il cuore ri-sonante; ma spesso accade che ci bastino le ragioni che motivano le istanze nostre». È questa l’alea meravigliosa che accompagna, per lo più, il rapporto intercorrente fra compositore e interprete; ovvero, più articolatamente, fra compositore e opera e interprete e ascoltatore. A volte, lo sentiamo bene, in questo mobile sistema di relazioni culturali si apre una rete di suggestioni e di rimandi simbolici così fitta, che la creazione di un’opera musicale, e dunque la sua ri-creazione, il suo ri-conoscimento esecutivo e percettivo, diventano la più potente e misteriosa esperienza di comunicazione, la più ricca e avventurosa opportunità che ancora siano date vivere all’uomo contemporaneo, per condividere pensieri, idee ed emozioni.
La musicale corona d’ascendenza “scupoliana” di cui qui si scrive, potrebbe a questo punto figurarsi anche come un rosario di frattali, pronto ad aprirsi, a gemmare in modo pressoché inesauribile verso le più diverse direzioni: focalizzato e approfondito, ogni dettaglio dei tre brani - composti da tre maestri d’oggi in onore di un antico “servo Teatino” - sembra disponibile a farsi carico di sempre nuove valutazioni tecniche ed estetiche. E un simile labirinto di segni andrebbe poi illustrato con logica verbale, in un traslato di sistemi ‘linguistici’ che è già di per sé un’altra sfida comunicativa.
Un filo d’Arianna, o meglio una “santa guida” tuttavia è data, «perché di ogni cosa della corona si cavi il frutto». Si tratta appunto dell’antico Combattimento spirituale attorno cui Flavio Colusso, Vito Paternoster e Mariano Paternoster, moderni soldati sul fronte dell’Arte, sono stati chiamati a intrecciare le proprie esperienze di cultura e di vita, peraltro trovando un trait d’union ulteriore nello specifico timbrico del violoncello solista, scelto quale unico, ideale attore per una tenzone che vuol essere tutta interiore, a impersonare cioè il campione, per dire così, di una «battaglia più d’ogni altra difficile, [… perché] combattendo contro noi, siamo insieme combattuti da noi». Un aspetto fonosimbolico, questo, da sottolineare, anche tenendo conto della ragione pratica di potersi avvalere, per le prime esecuzioni dei brani, di una verifica interpretativa omogenea, grazie alla disponibilità di un virtuoso del calibro di Vito Paternoster.
Tre compositori d’oggi hanno dunque tessuto con nodi tutti difformi un’analoga trama “bellica”. Soprattutto, si sono mossi (e impegnati a com-movere l’ascoltatore) verso uno stesso approdo spirituale, così che sia possibile, ciascuno per sua personale esperienza, raggiungere quel raro momento in cui la saldatura ritmica fra mito e rito (per coniugare parole-chiave della riflessione antropologica di Levi-Strauss e di Ries), sembra sopprimere l’inesorabile, indistinto continuum del vivere nostro. Come se certe epifanie sonore riuscissero d’un tratto a portarci fuori da un fumoso e chiassoso fluire, che ci rende come ciechi e sordi, mentre invece possiamo anelare ad una “diversa” e più profonda consapevolezza di noi stessi, per un’esigenza “spirituale” che si rinnova da millenni in pressoché tutte le civiltà e le culture.
Sollecitare questa tensione “verticale” era in effetti, anche a parere del combattente Scupoli, il fine cui dovrebbe mirare elettivamente la pratica della musica; una pratica che, fra l’altro, proprio all’epoca di questo soldato teatino, andava rivendicando pieno statuto retorico, come di “lingua” precipua degli umani affetti. In poche frasi Lorenzo Scupoli sembra dunque risolvere, nella sua operetta morale, secoli di cristianissime diatribe circa la valenza (diremmo oggi, esosemantica o endosemantica) dei suoni, quando essi siano ben organizzati - non necessariamente dall’uomo, come si vedrà – e dall’uomo efficacemente riconosciuti. Ovviamente, lo Scupoli è interessato soprattutto (se non esclusivamente) al livello estesico del fenomeno: in particolare egli pare inteso a conciliare la duplice natura della musica, a risolvere in funzione etica un’ambiguità ritenuta propria del medium in oggetto, in quanto forma di espressione che sembra tener continuamente in bilico l’uomo fra appagamento dei “sensi esteriori” e possibilità di una proiezione spirituale.
Così, agli inizi del Seicento don Lorenzo esorta la “figliuola”, sua ideale lettrice, a considerare come l’ “armonia di suoni e canti” – e, parrebbe di capire, tanto più se armonia costruita dall’uomo e offerta alla percezione umana attraverso forme, tecniche ed esecuzioni accattivanti – non debba limitarsi a gratificare curiosità e “volontà inferiore”, col rischio di spingere la “volontà superiore” a compiacersi per tanta abilità e sensibilità. Fatto è che il godimento sonoro (il quale sarebbe tutt’altro che da fuggirsi, perché un vero combattente mai si sottrae alla prova di sé), questo piacere generato a tutta prima dai sensi, dovrebbe divenire occasione per provare un diletto anche maggiore, capace di scavalcare la stessa percezione sensibile: capace insomma di spalancare le porte ad orizzonti di vera estasi. Scupoli pensa che all’armonia sonora si possa sempre attribuire un senso ulteriore, perché attraverso di essa si possano palesare certe profonde relazioni che connotano il creato: basterebbe riflettere, gioiosamente, su come «tutte le cose insieme, non solo in Dio stesso sprigionano sovraceleste armonia, ma fanno anche meraviglioso concerto unitamente negli angeli, nei cieli e in tutte le creature». Un viaggio di andata e ritorno, questo della musica fra corpo e anima, fra creato e creatore (tutta la natura in effetti risuona per disegno divino, basta tendere l’udito “interno” per accorgersene), che sembra rinnovare in direzione controriformistica la millenaria dottrina sul nesso intercorrente fra armonia mundana, humana e instrumentalis.
Con la sua minuziosa catechesi, sollecitante una virtuosa esperienza di sé nella totale confidenza in Dio, lo Scupoli si occupa dunque anche del gesto specifico del fare e del ricevere musicali “concerti”: prerogativa essenzialmente umana, ma di cui anche la natura, il creato, s’è detto, possono partecipare, a modo loro e per dono divino. In conclusione il padre teatino ritiene che anche per tale via sensibile si possa realizzare un evento ideale.
Non occorre essere cristiani alla maniera controriformistica del nostro Chierico Regolare (né forse essere religioso tout court) per apprezzare la valenza etica di tale prospettiva estetica. Lo dimostra il profondo coinvolgimento del “pubblico” ad ognuno degli esercizi spirituali che sono stati modernamente concertati, nel corso dell’anno scupoliano, fra la Basilica di S. Giacomo in Augusta di Roma, la Cappella del Tesoro di S. Gennaro del Duomo di Napoli e la Cattedrale di Otranto. Le pagine per violoncello solo, scritte ad hoc da Vito Paternoster, Flavio Colusso e Mariano Paternoster (come s’è accennato sopra, pagine tutte intensamente interpretate dal primo, con la partecipazione della “voce” Silvia De Palma per il brano di Colusso), sono certamente fiorite da vive tensioni interiori (quelle utili a portare alla luce quanto di “critico” alberga in ciascuno di noi), essendo intese a provocare forti esperienze percettive e immaginifiche. Tali, cioè, da sollevare, almeno per un tratto, «la patina di polveri sottili» con cui «il frastuono del quotidiano contemporaneo inquina la vera forza vitale che è nello spirito dell’uomo». Un desiderio di elevazione, che è di per sé anelito di conoscenza e, forse, nostalgia di Dio, soprattutto quando non si abbia la Grazia di avvertirNe la presenza.
1. Ad arma fideles.
«Imprescindibile e fondamentale» resta, nel modus componendi di Flavio Colusso, «il rapporto testo-musica, anche laddove le parole non sembrano presenti». Ponendo costantemente a confronto i due sistemi simbolici, questo immaginifico discepolo di Domenico Guaccero e Franco Evangelisti (nonché, idealmente, di Arvo Pärt e Pawel Szymanski, per citare solo alcuni referenti “moderni”, in un elettivo peregrinare dentro l’”antico”), sembra ogni volta volerne mettere a nudo la analoga funzione “comunicativa”, ovvero la comune radice “linguistica”. Quella radice, cioè, che tanto nel suono quanto nella parola, si alimenta di simili parametri spazio-temporali, al fine di connettere fra loro sensazioni, idee, persone. Nel caso dell’“esercizio spirituale concertato”, prassi devozionale cara al Colusso “nuovoantico”, è evidente che tale cooperazione fra musica e parole viene orientata una volta di più con sapiente strategia retorica, così che interprete e ascoltatore siano sollecitati alla più ampia condivisione ed al più efficace riconoscimento delle valenze sottese a suoni organizzati nei modi più suggestivi. Nel limen che corre fra il melos semantizzato dalla parola e la parola accesa e illuminata dalla combinazione dei diversi parametri sonori, la scelta del testo ‘spirituale’ è dunque sempre basilare. Per evocare il nucleo bellicoso del trattatello scupoliano, Colusso pesca fra le sequenze di genere, riutilizzando versi latini che, plinto semantico di suggestive battaglie musical-spirituali combattute lungo tutto il Seicento, egli aveva già usato come chiave di lettura per personali, modernissime riflessioni estetiche.
Le metafore sparse in tali strofe incitanti all’armi, sembrano ben sintetizzare, in effetti, la catechesi di Lorenzo Scupoli. Nella reinvenzione fattane da Colusso, la voce recitante si insinua (come un soffio, ché sempre di battaglia interiore si tratta) fra le nervose e rarefatte sonorità del violoncello solista, generando continui scambi e sovrapposizioni di parametri e di funzioni: solo per breve tratto, sulle parole che offrono pane e cibo di redenzione, è dato al cantante di assaporare il melos, quasi a sottolineare la dolcezza e purezza delle armi salvifiche, a fronte dell’aspra, sotterranea lotta che occorre sostenere contro l’antico serpente. Né il violoncello si limita a intensificare per ipotiposi il senso di queste parole, che evocano intimi furori e mistici trionfi. Con precisa logica formale (portatrice appunto di senso ulteriore), veloci anabasi e catabasi ad libitum, ovvero sinuosi percorsi cromatici, si incastrano fra i ritorni di alcune cellule accordali, che dunque figurano quale struttura portante del brano – significativamente, è questo il fondo armonico su cui fiorisce brevemente il melos di cui s’è detto.
La ripresa costante di tre simili bicordi ascendenti, ogni volta incorniciata da corone (quasi un invito alla meditazione, per un gesto di sospensione e di rarefazione non solo facilmente relazionabile a certo spirito “scupoliano”, ma proprio consono al Colusso delle ultime opere, particolarmente inteso a sottrarre e a cesellare materiali), sembra peraltro evocare e mettere in rilievo antiche sonorità “napoletane” – quasi una distorta eco di quella “scala frigia” che la iatromusica del Seicento riteneva particolarmente confacente alle tensioni emotive più forti, se non proprio agli accessi di furore.
Forse, mi lascio avviluppare un po’ troppo dalla rete di simboli propria di processi cultuali stratificati, ma anche per via di simili reminiscenze sonore, la battaglia organizzata da Colusso contro l’antico serpente, che sempre s’agita nel fondo tenebroso di ciascuno di noi, sembra portar traccia in sé di remote tenzoni contro tarantole luciferine. Quelle velenose tarantole che, emissarie del Demonio nella Terra d’Otranto di Scupoli, anche il clero tridentino s’impegnò a combattere a suon di strumenti e di melodie popolari, cercando di orientare in senso tutto cristiano riti agonici ben più ancestrali.
[1] F. Colusso, Diari, 26 dicembre 2009, XXII, p. 5. Ringrazio l’autore per avermi permesso la lettura di queste sue pagine “segrete”, cronaca di combattimenti, interiori e no, quotidianamente affrontati in nome dell’arte. [2] Modo di dire la Corona in appendice al Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli, Napoli, Gargano e Nucci, 1610, p. 289: mi permetto di traslare un’insistita preoccupazione del padre teatino, ben consapevole di quanto resti difficile “regolare la lingua dell’uomo”. [3] L’idea di coronare con tre nuove armonie l’antico Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli (ed. Napoli, ut supra) è stata, come intuibile, di Flavio Colusso, maestro della Cappella musicale della Provincia Teatina d’Italia, che ha voluto coinvolgere nelle celebrazioni per l’anno scupoliano tanto Vito Paternoster, suo collaboratore da circa vent’anni, cioè dai tempi almeno dell’Inzaffirìo, suggestiva sequela di sei preghiere mariane per soprano, violoncello ed archi, create e incastonate dal Paternoster in altrettanti preludi bachiani (CD Musicaimmagine Records, 1993, solisti Patrizia Pace e lo stesso Paternoster, orchestra Ensemble Seicentonovecento); quanto Mariano Paternoster, figlio di Vito, pure sensibile a certe commistioni Between old and new, per citare il titolo di un’antologia di brani per violoncello, pianoforte e orchestra, composti dai due Paternoster sempre nello spirito della rivisitazione culturale multistrata (cd Baryton, 2010, solisti Vito Paternoster e Pierluigi Camicia, orchestra La Lyra di Anfione). [4] Il Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli, cit., capitolo I, In che consista la perfezione cristiana. Per acquistarla bisogna combattere. [5] Il Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli, cit., capitolo XXI, Modo di regolare i sensi esteriori e come da quelli si possa passare alla contemplazione della divinità, capoverso finale. Nel capitolo successivo, intitolato Le cose medesime ci servono per regolare i nostri sensi, passando alla meditazione del Verbo incarnato nei misteri della sua vita e della sua passione, il concetto d’armonia è così rimodulato: «Sentendo il canto degli uccelli o altri canti, eleva la mente a quelli del paradiso dove risuona un continuo alleluia e prega il Signore che ti faccia degno di lodarlo in perpetuo insieme con quegli spiriti celesti». [6] Riprendo la metafora usata dal regista George Brintrup per suggerire quale sia la forza dell’arte, e di quella musicale soprattutto: citazione da F. Colusso, Per cinque voci (e infinite memorie), «Annali della Pontificia Insigne Accademia di Belle Lettere dei Virtuosi del Pantheon», X, 2010, pp. 23-35. [7] F. Colusso, La “nuovantica” Missa Sancti Andreae Avellino, prefazione dell’autore all’edizione della partitura del Proprium Missae della festa del Santo, con testi di Valentin Arteaga CR e Vincenzo Cosenza CR, Lucca, LIM, 2008, coll. Musica Theatina VI. [8] Sono tutte risonanze, queste, già evidenziate da P. E. Carapezza, La Missa Sancti Andreae Avellino di Flavio Colusso, Ivi, pp. VII-IX. [9] Cfr. F. Colusso, Ad arma fideles: una chiave di lettura per l’Homme armé di Giacomo Carissimi, Atti del Convegno internazionale di Studi su Giacomo Carissimi, Roma 2005, in corso di pubblicazione. La fonte testuale e musicale cui più direttamene si rifà Colusso è un mottetto a 5 voci del compositore siciliano Vincenzo Amato (1629-1670), tratto dai Sacri Concerti a 2.3.4. e 5. Voci, con una Messa a 3. e a 4. Voci […], Libro I, Palermo, Giuseppe Bisagni, 1652 (trascr. di Giuseppe Collisani per la prima ripresa moderna del 2003). Non poche le chiamate alle armi, s’è detto, nella prassi devozionale del Seicento: basti citare i mottetti dall’identico incipit (ma i versi sono poi differenti, decisamente più bellicosi ed ‘estroversi’ rispetto a quelli scelti da Amato e Colusso) di Kaspar Forster (1616-73, allievo di Marco Scacchi e di Giacomo Carissimi, fu maestro di cappella a Copenaghen e Danzica) e di Giovan Battista Bassani (1647-1716, attivo fra Bologna, Ferrara e Bergamo). Il primo scrive un brano a 3 voci (CCB) ed organo, in cui ritornelli contrappuntistici si intersecano a passi monodici più ariosi. Il secondo, elabora di fatto una cantata virtuosistica per voce sola (B), ricca di arie col da capo e con vivace concertazione di due violini e basso continuo. [10] Astuto, maligno, perverso, ostinato è, questo serpente, anche per Scupoli (Combattimento spirituale, cit, passim); ma soprattutto è demone benissimo accomodato in ognuno di noi, così che nella battaglia morale occorre «vincere se stessi: qui è tutto!»: capitolo XII, Molte volontà esistono nell’uomo. La guerra che si fanno tra loro. [11] Cfr. Ivi, capitolo XXIV, Il modo di regolare la lingua: «Il silenzio è una gran fortezza della battaglia spirituale […], è amico di chi diffida di se stesso e confida in Dio […]; prendi amore per questa virtù e, per farti l’abitudine, taci per qualche tempo anche dove non sarebbe male parlare». Ancor più suggestivamente nelle Aggiunte, cit., capitolo XIV, Altro modo di orare: «[… volgiti a Dio] senz’altro dire, jacolandogli [sic] di tempo in tempo sospiri, volgendogli un cuore desideroso di piacergli ed infocato desiderio che ti soccorra». Una vera, musicalissima, semantica del silenzio.