Il Tesoro nascosto di Matteo Ricci, 2010

Roma, Chiesa di Sant’Ignazio
martedì 4 maggio 2010, ore 18:30

Esercizio Spirituale Concertato
a cura di Flavio Colusso
con musiche dei Maestri di cappella della Compagnia di Gesù
consulenza storico-musicologica di Johann Herczog

Ensemble Seicentonovecento
Cappella Musicale di San Giacomo
Flavio Colusso, direttore
Andrea Coen, organo e cembalo

IV Centenario della morte di Matteo Ricci (1610 - 2010)

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Duomo di Monreale
lunedì 15 novembre 2010, ore 21:15

53^ Settimana di Musica Sacra di Monreale
Allegati Audio / Video Foto
I tesori nascosti di Matteo Ricci
di Johann Herczog

L’evento dall’emblematico titolo Il tesoro nascosto di Matteo Ricci vuole liberamente rappresentare l’incontro del mondo occidentale con quello della Cina, individuando le profonde connessioni tra le radici culturali dei Gesuiti formatisi al Collegio Romano con lo spirito del servizio missionario. La musica è una delle chiavi della profonda stima e amicizia conquistate dal Padre Ricci, detto “il matematico” e l’esercizio dell’esacordo si presta mirabilmente all’evocazione dell’eccezionale “incontro”.

Seguendo le indicazioni di sant’Ignazio i missionari Gesuiti, ispirati a pragmatismo e forti di un’esemplare organizzazione, hanno sempre cercato di adeguarsi alla cultura, alla lingua e al modo di pensare di una popolazione autoctona, nel rispetto di usanze ataviche. In tale procedimento, definito accomodazione, risiede il segreto della buona riuscita delle missioni, di cui un formidabile esempio è quello della Cina, dove Matteo Ricci arrivò nel 1582 imparandone la lingua, vestendosi alla cinese e facendo amicizia con la popolazione e gli studiosi locali.

Di fronte all’antichissima cultura cinese Ricci mostrò massimo ossequio, ben consapevole della difficoltà di mediare un nuovo concetto religioso presso una civiltà che intellettualmente non aveva niente da invidiare a quella europea. Egli cercava quindi di stimolare, anzi, provocare l’intellighenzia cinese con acquisizioni umanistiche e scientifiche occidentali come la misurazione del tempo, la realizzazione di una pianta geografica dalla quale gli eruditi asiatici potessero per la prima volta apprendere dove nel mondo fosse situata la loro patria, o la mnemotecnica, sulla quale scrisse in lingua cinese un trattato intitolato Xiguo jifa.

La cultura musicale cinese è molto più antica di quella europea, in senso sia teorico che pratico, coinvolgendo anche categorie filosofiche, fatto di cui Ricci sicuramente si rendeva conto. C’era, tuttavia, un particolare aspetto della musica occidentale da collegare esclusivamente con l’Europa, la polifonia, la cui singolarità Ricci considerò forse consapevolmente. Il risuonare contemporaneo ma organizzato di varie parti poteva suscitare l’ammirazione dei cinesi, che apprezzavano la sistematicità e la proporzione, nonché l’armonia in senso più esteso. Ricci nel 1601 regalò “un bel clavicembalo” all’Imperatore: il Figlio del Cielo e la sua corte rimasero impressionati dallo strumento accordale per eccellenza e dalla sua meccanica. Per un mese Ricci e il Padre Pantoja diedero lezioni di musica a quattro eunuchi, musici della corte, i quali chiesero inoltre delle “canzoni che si cantavano nelle sonate” che erano state eseguite. Il maceratese comprese al volo quello che da lui ci si aspettava e compose otto canzoni, ossia testi morali, da associare alle relative sonate. C’è da stupirsi come egli riuscisse a immedesimarsi nelle aspettative e nelle istanze avanzate elaborando contenuti apparentemente ideati da un cinese, riuscendo a coordinare poeticamente natura, virtù, sentimento - e il Cielo, che nel Celeste Impero equivaleva a Dio.

Ricci dal 1568 visse a Roma e potrebbe aver avuto molte occasioni di conoscere sia lo stesso Giovanni Pierluigi da Palestrina che il suo eccellente allievo Tomás Luis de Victoria: entrambi erano maestri di cappella presso il Collegio Romano nel cui programma educativo, in seguito alle disposizioni del Concilio di Trento, la musica occupava uno spazio considerevole. Sembra ragionevole presumere, quindi, che la musica polifonica romana fosse quella alla quale il poliedrico Padre potesse ricorrere per dare un saggio “del concento delle nostre voci” europee. A una esecuzione potevano partecipare sia altri missionari sia persone del loro entourage e, considerando la fantasia combinatoria del Padre Ricci, non possiamo escludere che egli proponesse composizioni di contenuti miratamente ricercati per provocare un effetto presso il suo pubblico intellettuale ma convinto della superiorità della propria cultura e, quindi, scettico. A questo intento, ed anche a scopo propedeutico, potevano offrirsi la Missa ut re mi fa sol la, l’inno Ut queant laxis e alcuni “esercizi” sull’esacordo attribuiti al Palestrina ed intitolati Thesaurum absconditum: il numero 6, del resto, è l’unico ente numerico compresente nei due mondi dei numeri pari e dei numeri dispari. Tali brani, si prestano in modo particolare a far conoscere l’antico sistema di notazione e la didattica occidentale inserita in una tipica composizione costruita su canti fermi. Un tale procedere poteva peraltro perfettamente connettersi con le già citate esposizioni sulla mnemotecnica e non possiamo neppure escludere che Ricci abbia compiuto dimostrazioni tonali sul clavicembalo per i suoi ascoltatori curiosi, comunque altamente interessati di quelle questioni matematiche e combinatorie che in qualche modo determinarono anche la loro propria cultura sonora.